A giudicare dal clamoroso risultato delle elezioni britanniche, la Brexit oggi sarebbe impensabile.
Quasi certamente, peraltro, ha influito non poco nell’ottenimento, da parte del Partito Laburista, di una delle più schiaccianti vittorie che si ricordino, con oltre 410 seggi conquistati su 650. Prematuro, oggi, dire se Keir Starmer, che oggi sarà nominato primo ministro, è il nuovo Tony Blair (anche perché Blair, quando assunse, nel 1997, il ruolo aveva appena 43 anni, mentre il nuovo leader ne ha 61), ma le condizioni in cui “raccoglie” il Paese (sanità a rotoli, scuole in degrado, conti pubblici alla deriva, sterlina che, rispetto a 8 anni fa, ha perso il 15% del proprio valore, 3 milioni di persone che devono ricorrere alla distribuzione di cibo – erano 40.000 quando i conservatori, nel 2010, salirono al potere) sono tra le peggiori che si ricordino: la “valanga” di voti, in fondo, è la miglior testimonianza di quale sia la percezione dei cittadini inglesi. E se 8 anni fa le differenze tra i grandi agglomerati urbani e le cittadine rurali erano evidenti (con i primi che già all’epoca favorevoli al partito laburista) oggi si è creata una certa omogeneità, visto che la vittoria è stata ottenuta anche lontana dalle grandi città.
Di certo a Londra la governabilità, visti i numeri, non sarà un problema. E difficilmente vedremo un susseguirsi di primi ministri così frequente come quello visto negli ultimi 6 anni (con ben 5 Primi Ministri, manco fossimo in Italia…), un altro dei motivi che hanno affossato il Paese.
Situazione un po’ diversa di quella che potrebbe verificarsi, domenica sera, in Francia. A meno di clamorose sorprese, infatti, non dovrebbe esserci un vincitore con una “forza relativa” così evidente (la maggioranza assoluta ormai “non è più nei radar”) da permettersi di sedersi al tavolo guardando gli altri “dall’alto in basso”. E, viste quelle che erano le prospettive sino a qualche giorno fa, la cosa è vista piuttosto positivamente, sia dai mercati che da un punto di vista più politico-istituzionale.
I mercati, essendo storicamente “a-politici”, non tifano per uno o per l’altro per il relativo programma politico (banalmente a loro “non gliene frega niente”, per dirla senza giri di parole, dell’accoglienza o meno dei migranti), bensì tendono a preferire chi è in grado di presentare programmi economici attendibili e, soprattutto, sostenibili (ancora meglio se, con la “sostenibilità”, e quindi il controllo dei conti, vengono presi provvedimenti capaci di rilanciare l’economia e l’iniziativa privata, promuovendo crescita e sviluppo). Quello che, in Francia, sia la destra che la sinistra, entrambe piuttosto radicalizzate (quasi estremiste in alcuni loro rappresentanti) non sono in grado di assicurare. Con i partiti più moderati (vedi Ensemble, il partito di Macron) lontani nei sondaggi e ridotti al ruolo di comprimari (a meno che, anche in Francia, non prenda piede un’alleanza “semaforo”, sull’esempio della Germania, anche se la “radicalizzazione” di cui sopra rende praticamente impossibile qualsiasi ipotesi).
Rimane il fatto che anche ieri proprio i mercati hanno nuovamente dato segni di distensione, con spread in ribasso e quotazioni azionarie in rialzo, allontanando, in questo modo, lo “spauracchio” del “populismo” (qualsiasi sia il colore) al potere. Ancora una volta “causa-effetto” diventano un enigma, intrecciandosi a doppia mandata: è l’idea che domenica sera a Parigi avremo, comunque vada, un governo moderato che spinge al ribasso lo spread e al rialzo i listini, o sono i mercati che, con la loro “moral suasion”, indirizzano le scelte politiche?
Fatto sta che è opinione diffusa che l’eccesso di volatilità dovrebbe essere finito, con gli investitori che sono già “oltre”: oggi non sono tanto le questioni politiche a preoccupare (Londra o Parigi – e forse anche Washington – che sia), quanto quelle puramente economico-finanziarie. E quindi, ancora e sempre, inflazione, crescita (o recessione), politica monetaria. Con, a completare il quadro, la situazione geo-politica, al momento piuttosto “silente” (a parte il viaggio odierno di Orban a Mosca, quasi a “sfidare” la UE e i Paesi Membri, e che rischia di assumere il significato di un viaggio “pastorale” a trovare un vecchio amico).
Per concludere, un quadro certamente non ottimale, ma neanche così critico: l’economia, seppur in maniera sempre non lineare, continua a crescere, l’inflazione, anche lei in maniera non così lineare, continua a scendere, le guerre rimangono nell’ambito di conflitti “regionali”, anche se vedono il coinvolgimento delle potenze della terra, i tassi, seppur lentamente, la strada la stanno trovando. Nulla, quindi, che faccia pensare, a “sconvolgimenti” e a “corse ai ripari”.
Ieri nessun record a Wall Street, per il semplice fatto che i mercati erano chiusi per l’Indipendence day.
I mercati del Pacifico si avviano a concludere la settimana senza troppi entusiasmi.
Il Nikkei di Tokyo, a pochi minuti dalla chiusura, è appena sotto la parità (– 0,12%).
Pur rimanendo in terreno negativo (– 0,44%) Shanghai si è allontanata dai minimi di giornata.
Va peggio, a Hong Kong, l’Hang Seng, vicino al – 1% (- 0,98%).
In controtendenza Seul, con il Kospi a + 1%, trascinato da Samsung (+ 3%).
Futures moderatamente positivi un po’ ovunque.
Stabile il petrolio, con WTI a $ 83,75, – 0,26%.
Gas naturale Usa a $ 2,354, – 2,77%.
Oro a $ 2.374, + 0,14%.
Spread a 140,8, con il BTP che torna a “rivedere” il 4% (3,99%).
Bund 2,60%.
Oat francesi al 3,26%.
Treasury 4,35%, sui livelli di ieri.
In rafforzamento l’€ , con €/$ a 1,0822.
Continua la debacle del bitcoin, sceso questa mattina sotto i $ 55.000 (54.398, – 4,63%).
Ps: e così, da oggi, le auto cinesi dovrebbero costare, in Europa, tra il 17,4% e il 37,6% in più (a seconda del produttore). Una mossa che sembra voler emulare quella statunitense, dove, però, i dazi possono arrivare al 100%. Immediata (o quasi) la riposta cinese, con le autorità del Paese che hanno ordinato un’inchiesta sull’import, dall’Europa, di carne suina (la Cina è il maggior consumatore mondiale), che vale ben € 6 MD (in primo luogo proveniente dalla Spagna). Queste minacciano di essere le vere guerre per il futuro e il pericolo maggiore per la crescita globale.